Storia dei movimenti e delle idee  – Il contesto storico-culturale

Gli anni che vanno dal 1870 alla fine del secolo sono uno dei periodi più complessi e ricchi di eventi della storia contemporanea. La loro importanza deriva dal naturale sviluppo dei cambiamenti verificatisi lungo tutto il secolo XIX, in seguito alle rivoluzioni liberali, democratiche e socialiste, al progresso delle conoscenze scientifiche e della tecnologia, alla nascita della società industriale. In quegli anni nasce realmente un’epoca nuova.

Lo sviluppo scientifico e il “culto” della scienza

Una delle spinte più determinanti a trasformazioni così radicali è da collegarsi la grande sviluppo delle scienze. Le scoperte e le invenzioni, infatti, non modificano soltanto le condizioni economiche e sociali, ma contribuiscono anche a formare una nuova idea del mondo e una nuova concezione dell’uomo. Le scienze, in altre parole, creano esse stesse una vera e propria rivoluzione: influenzano profondamente tutti i settori della vita economica e sociale; orientano la riflessione sull’arte e soprattutto il modo di “fare” letteratura; sconvolgono antiche conoscenze e certezze; danno alla società del secondo Ottocento l’illusione di una lunga età di sicurezza e benessere. Uno degli aspetti più importanti della scienza in questo arco di tempo è che essa si rivolge frequentemente allo studio dei problemi tecnici collegati alla produzione di beni. Si viene così a stabilire un rapporto di collaborazione sempre più stretto tra scienza e industria. Questo legame sembra creare uno spartiacque tra il vecchio e il nuovo mondo. Il miraggio di una lunga epoca di progresso e benessere provoca naturalmente molto entusiasmo. Ben presto si assiste al fenomeno – che sarà chiamato scientismo – di una fede cieca nella scienza e nel suo potere assoluto di risolvere i problemi e soddisfare le esigenze dell’uomo. Il mito della scienza trova un terreno favorevole nella filosofia del tempo, il positivismo: un sistema di pensiero che imprime una forte accelerazione al movimento delle idee generando una fitta trama di corrispondenze sul piano culturale e suscitando speranze diffuse di rinnovamento sociale. L’opera di Auguste Comte (1798-1857) gioca in questo un ruolo essenziale. Il suo Cours de philosophie positive (1830-1842) e il suo Système de politique positive (1851-1854) non elaborano soltanto un progetto di classificazione e riorganizzazione delle scienze, ma portano soprattutto un contributo decisivo alla costruzione della metafisica della scienza. La fecondità del positivismo, infatti, è meno da ricercare in un consenso globale alla dottrina di Comte che non nella assimilazione generalizzata dello spirito e della mentalità che tale dottrina esalta e interpreta (la scienza come primato, criterio di giudizio, metodo di indagine storica e sociale). Al di là di alcuni suoi aspetti caratteristici e fondamentali, il pensiero di Comte si impone in vari ambiti perché diventa un “sistema aperto”, capace di produrre delle reazioni a catena e di rispecchiarsi in tante mutevoli forme, alimentando continuamente trasposizioni e surrogati di sé. Una sorta di enorme cantiere  dove ai materiali e ai frammenti originari si affiancano e sovrappongono una gran quantità di altri materiali e frammenti, destinati a costruzioni diverse. Da Comte in poi – attraverso soprattutto l’alta autorità di uomini come Hippolyte Taine e Ernest Renan – la filosofia positivistica si fa instancabile interprete dello spirito scientifico, razionalistico e materialistico che si diffonde con l’ebbrezza  delle conquiste della scienza e della tecnica. La “religione della scienza e dell’umanità” – come la chiamava Comte – prende il posto della religione rivelata e dei valori tradizionali,, giudicati simboli di un passato dogmatico e conservatore; di qui la rivolta antireligiosa, il rifiuto della Chiesa e, specialmente nella gioventù intellettuale, la forte ondata anticlericale; da qui la presunta “ morte di Dio” e del sistema di pensiero che lo avrebbe generato, come proclama, da una posizione filosofica molto influente, Friedrich Nietzsche.

Il nuovo volto della società e dell’economia

Il progresso scientifico-tecnico e, di riflesso, il maggior potere del’uomo sulla materia, l’utilizzazione crescente delle macchine e la loro applicazione alla produzione mutano in modo radicale le strutture e i ritmi dell’economia, suscitano nuove forme di attività professionale, modificano le condizioni di lavoro e, per concatenazione di cause ed effetti, generano  nuove “classi” o “tipi” sociali. Allo stesso modo, le trasformazioni  e i rivolgimenti che avvengono nel settore del credito favoriscono la nascita di istituti bancari e consentono l’assunzione di numerosi impiegati. L’avvento della società industriale ha però come effetto di allentare il vecchio stabile rapporto città-campagna e di creare tra esse un progressivo distacco.

Il mito del progresso e la coscienza della crisi

La situazione si aggrava nei lunghi anni (1873-1895) in cui il mondo è colpito da una forte depressione economica.  La disoccupazione e la fame diventano fenomeni preoccupanti. Il forte aumento della popolazione, poi, ingigantisce i problemi e costringe le masse  sempre più imponenti a emigrare all’estero. L’influenza economica ha naturalmente notevoli riflessi anche sul piano culturale. Il mondo, di buon grado o per forza, va a scuola dall’Europa, non solo perché ne riceve l’istruzione, ma perché la imita, ne assume i modelli nelle istituzioni politiche, nelle costituzioni nazionale, nei partiti, nell’organizzazione amministrativa e giuridica, non meno che nella vita sociale, nei costumi, negli sport. Con gli anni, attraverso l’organizzazione di movimenti sindacali e di partiti operai e socialisti si accentuerà la pressione nei confronti dello Stato  per ottenere il riconoscimento di legittimi diritti riguardanti le  condizioni materiali dei lavoratori (dall’entità del salario alla stabilità del lavoro, dagli orari alle condizioni igieniche) e, in una seconda fase, anche per trasferire le rivendicazioni operaie dal piano individuale al più generale tentativo di cambiare la società e costruire un più giusto ordine sociale.

Nuove trasformazioni e conflitti sociali

La rivoluzione industriale e la nuova società che essa modella modificano di continuo le condizioni di vita. In questo quadro si inserisce con un particolare influsso culturale e sociale il pensiero di Karl Marx (1818-1883) che, soprattutto attraverso la sua opera Il Capitale, provoca un grande movimento di idee e pone le basi del “socialismo scientifico”. Negli anni 1870-1880, infatti, il marxismo estende notevolmente la propria area di influenza e comincia a diventare il punto di riferimento principale del movimento operaio. Ben presto sopravanza le altre teorie socialiste che si erano diffuse in Europa e avvia il passaggio dal socialismo come dottrina di puro pensiero al socialismo come forza politica organizzata. Questo processo di sviluppo è in quel momento circoscritto all’area europea, ma determina una svolta sostanziale nella società, sia per gli orientamenti generali che suscita nel governo degli Stati o nell’opposizione al potere costituito nello stile, nei metodi e nelle forme dell’attività politica, sia per le scelte più vaste che abbracciano la sfera dei valori culturali, morali e religiosi.

Nascita e sviluppo del naturalismo

Origine del termine

Prima di essere riferito al movimento letterario che assume come principio e modello di rappresentazione narrativa la realtà “sperimentale” delle scienze della natura, il termine “naturalismo” era usato in Inghilterra fin dalla metà del Seicento per indicare la credenza fondata sulla sola ragione umana (naturalism 1641), mentre fa la sua comparsa in Francia agli inizi del Settecento per designare “l’interpretazione mitologica dei fatti della natura” (La Motte-Houdar, Fables 1719) e, verso la metà del secolo, il “ sistema in cui si attribuisce tutto alla natura come primo principio” (Diderot, Pensèe philosophiques, 1746).  L’uso del naturalismo nel senso che di lì a poco sarà comunemente attribuito al termine si ha nel 1857, quando il critico d’arte Jules-Antoine Castagnary, nel tratteggiare i caratteri artistici  di Coubert, lo definisce un “pittore che tratta la natura con realismo”. Questo binomio natura/realismo anticipa il riferimento specifico al naturalismo fatto l’anno dopo da Hippolyte Taine come “scuola letteraria che si propone di dare una rappresentazione realista della natura” e ai naturalisti come “coloro che la pratica in arte” (Essais  sur Balzac 1858).

Il dibattito sul realismo

In relazione al realismo considerato in una prospettiva critica, il ruolo svolto da Champfleury è stato certo stimolante, ma non tale da far di lui il caposcuola del movimento naturalista, come vorrebbe Zola. Se non manca di distinguersi, infatti, per una poetica realista d’ampio respiro, egli non reca invece alcun preciso e rigoroso apporto all’evoluzione teorica del romanzo nel senso che lo intenderà Zola.

Il naturalismo secondo Zola

L’esperienza che Zola andava cumulando e maturando sotto il profondo influsso delle teorie di Darwin, Lucas, Letourneau e, ancor di più, della filosofia dell’arte di Taine e delle prospettive mediche sperimentali di Bernard, si arricchisce con l’esempio dei Goncourt. Nello specifico campo del romanzo Zola riconduce la matrice originaria della formula naturalista all’opera di Balzac e Flaubert. Ricollegandosi espressamente a Taine, Zola riconosce in Balzac il padre del naturalismo, lo scrittore che più ne imprime i caratteri e ne determina gli sviluppi.

I funerali del naturalismo

 Con la morte, a distanza di pochi anni, dei principali protagonisti: Maupassant, Goncourt, Daudet, Alexis, Zola si chiude la parabola storica del movimento. Ma il declino o, come li chiama Lèon Bloy, i “funerali” del naturalismo cominciano già prima. Il fatto che sotto l’etichetta naturalistica fossero classificati autori e opere di diversa ispirazione e maniera significa che la matrice del naturalismo era vaga. Quando Zola afferma che il termine naturalismo “finirà per avere il senso che gli daremo” o quando sostiene che lo scrittore naturalista resta pur sempre libero di esprimere nell’opera “come gli sembra meglio “, concede alla creatività dell’artista uno spazio che, nel passaggio dall’enunciazione teorica alla fase applicativa, diventa sempre più largo e predominante, finendo con lo snaturare e invalidare il principio, essenziale del naturalismo, di una rigorosa e del tutto obiettiva rappresentazione dl reale.

Eredità del naturalismo

La fortuna del naturalismo è strettamente legata a Zola e all’accoglienza riservata alle sue opere. Sulle gazzette e le riveste del tempo, Zola era diventato il bersaglio preferito. La sua persona e i suoi personaggi venivano largamente  ripresi dai giornali, già nella seconda metà degli anni settanta ma soprattutto a partire dagli anni ottanta. Caricature forti in cui l’opera di Zola e il movimento che a lui faceva capo diventavano materia continua di satira. Esse compongono una ricca antologia e costituiscono un capitolo di grande interesse nella storia della fortuna di Zola, in quanto sono documenti rivelatori, nella loro stessa negatività, del clima di un’epoca, della popolarità del romanziere e della battaglia delle idee che ruotava intorno a lui. Anche dopo la morte, Zola – con le sue tematiche popolari, il suo spirito artistico e il suo impegno civile – continua a essere un riferimento importante, o come ispirazione diretta o come sotterraneo richiamo. Passata l’epoca delle contrapposizioni frontali o delle difese a oltranza – l’una e le altre contrassegnate più dai sentimenti e dalle passioni  che non improntate  a un’oggettiva analisi critica -, anche lo sguardo e il giudizio sulla sua opera cominciano ad allargarsi. Sarà tuttavia solo negli anni Cinquanta che l’opera di Zola, letta in chiave critica, acquisterà una fisionomia e un posto preciso nella storia della letteratura. Da quel momento prenderà l’avvio un lavoro sistematico di esplorazione di Zola e del naturalismo, volte a definire sempre meglio, la complessità e la portata della testimonianza letteraria e culturale di Zola. Le radici del successo di Zola stavano soprattutto nella sua capacità di guardare al proprio tempo con lo sguardo proiettato all’avvenire. Non a caso la stampa poneva l’accento sull’impegno civile e la funzione sociale dell’arte di Zola e, in loro nome, tendeva a giustificare anche l’audacia e la crudezza con cui lo scrittore sottoponeva ad analisi i comportamenti individuali e collettivi. Quel che colpiva in Zola era infatti, prima ancora della forza epica, il coraggio della verità. Nel coro osannante di voci che salutavano Zola come un maestro della letteratura, non mancavano di avere atteggiamenti di riserva nei confronti della sua poetica. Gli stessi Verga e Capuana, pur assimilando alcuni principi del romanzo naturalista, seguiranno nel loro operare artistico una diversa ispirazione, erano orientati verso una rappresentazione della vita che nasceva sì dalla realtà, ma una realtà ricreata dall’intimo. Verso il 1890 cominciava a profilarsi una più generale ondata di riflusso che neppure l’enfasi delle grandi occasioni, rispolverata nei giorni dell’affare Dreyfus, era riuscita ad arrestare. Il clamore suscitato dal processo e l’eco avuta dal J’accuse (1898) zoliano non serviranno infatti  a rilanciare la popolarità dell’autore già declinante in Francia e di poi in Italia. Il successo personale di Zola aveva favorito di riflesso la conoscenza di altri scrittori naturalisti o in qualche modo collegati al naturalismo. Jules e Edmond Goncourt cominciavano ad avere una discreta cerchia di lettori ma che comunque la loro opera non riuscirà a penetrare nella cultura italiana. Particolarmente calorosa fu l’accoglienza riservata a Maupassant e a Daudet. Le ragioni di ciò erano da ravvisarsi nella freschezza narrativa con cui realtà, sentimento e poesia diventano il racconto della condizione umana. Nelle Soirèes de Mèdan, tradotte in Italia nel 1881 col titolo Le veglie di Medan, Maupassant aveva dato la misura di un’arte non allineata sui rigidi schemi del naturalismo zoliano, ma ispirata alla più libera esperienza creatrice maturata alla scuola di Flaubert.  Questa prospettiva era stata ben intuita da critici come Cameroni, Zena, Pica, Pipitone Federico, ai cui occhi Maupassant rappresentava un nuovo punto di riferimento nella storia del romanzo realista. Stessa accoglienza anche per Daudet. Le numerose traduzioni che Treves e Sonzogno facevano rispondevano a un diffuso interesse verso questo autore che sapeva porre, nella pesante atmosfera del naturalismo, una gradita nota di fantasia, ottimismo e calore umano.

Conclusioni

Un aspetto che emerge con chiarezza è che il naturalismo è andato quasi sempre al di là di se stesso, delle sue teorie e dei suoi programmi. Se questo in fondo è stato il suo limite, alla distanza è stata la sua forza, perché gli ha consentito di liberarsi dai vincoli di un documetarismo asettico che non avrebbe potuto restituire l’intima verità degli ambienti e dei tipi sociali rappresentati. In definitiva resta vero quanto affermava Brunetière: alla fine contano, non le teorie che si proclamano ma i contenuti reali delle opere. Sono questi, se validi, a resistere al tempo, contro o al di là delle stesse teorie che li hanno fatti nascere.

( Giuliano Vigini – Storia dei movimenti e delle idee – Naturalismo francese – Editrice Bibliografica – Milano 1996 – Biblioteca  Camera dei Deputati)

Movimenti e istituzioni

I cosiddetti movimenti collettivi danno forma a tutte le formazioni sociali più stabili come partiti, sette, chiese, nazioni, imperi. Questa teoria, in passato, sarebbe stata classificata come ‘filosofia della storia’ ma oggi è da considerare come teoria sociologica dei movimenti collettivi e delle istituzioni in quanto la sua articolazione interna assomiglia a quella degli autori classici della sociologia come Weber, Simmel, Durkheim e Pareto. I movimenti collettivi nascono imprevisti e imprevedibili dal brusco sorgere di una solidarietà che rompe i precedenti legami e produce un nuovo aggruppamento umano animato da ideali e con un nuovo progetto di vita. Il più importante movimento del secolo scorso fu il maxismo che conquistò il potere in Russia e in Cina creando il cosiddetto regime totalitario ed altri tipi di regimi. Nella società occidentale vi è sempre stata una continua trasformazione scientifica-economica che da origine nuovi modelli di vita. Trasformazione derivata dalle crisi che hanno interessato gli Stati e i governi. In Italia la fragilità della Democrazia è dovuta ad un difetto della Costituzione che non tiene conto della fondamentale separazione dei tre poteri di Montesquieu: esecutivo, legislativo, giudiziario. Nella nostra Costituzione sono presenti solo due dei poteri, quello legislativo e quello giudiziario, mentre l’esecutivo dipende dai capricci di Camera e Senato. Il risultato è una spaventosa insufficienza dei governi, l’aumento del debito pubblico perché nessuno è responsabile delle spese, una vera e propria anarchia parlamentare e, probabilmente, è per questo che i politici difendono con tutti i mezzi il privilegio di garantirsi la rielezione. L’obiettivo di tutti, per una giusta applicazione della Democrazia, dovrebbe essere quello di riuscire a sostituire la dominante mentalità legalista con quella concreta e pragmatica. La riforma elettorale proposta con la riforma della Costituzione consentirebbe di concentrarsi solo su quei movimenti, partiti e persone che hanno una vera consistenza pragmatica a  poter realizzare, attraverso le leggi, le istanze del popolo e renderle fattibili attraverso una piu’ veloce legislazione parlamentare. Se i governi dovessoro fallire possono con le elezioni sciegliersi nuovamente i capi.

Lo sviluppo scientifico-economico

I movimenti del XIX secolo, dove come sappiamo, è più spiccata la componente sociale, sono anticapitalisti, ed è da essi che nascono i sindacati e i partiti socialisti moderni.

Anche la scoperta scientifica ha al suo centro un processo di stato nascente. Però questo processo resta, di solito, confinato all’interno di piccoli gruppi di specialisti e gli effetti delle scoperte si producono senza che sia necessario il costituirsi di un campo di solidarietà molto ampio.

Con la crisi economica nacquero i movimenti collettivi che furono sul punto di essere egemonizzati da èlite radicali di destra o di sinistra, comunque collettiviste. Gli studiosi di economia politica sostenevano che “la demagogia populista era rappresentata soprattutto dai leader razzisti del Sud, Theodor Bilbo e soprattutto Huey Long. Ma questo è uno scorcio dell’atteggiamento inquadrato in posizioni di tipo totalitario. Nei Paesi occidentali la tendenza collettivista non riuscirà a prevalere dappertutto. Nella cultura politica, in cui cresce il ruolo dello Stato, garante del benessere di tutti, si avvia alla produzione e al consumo di massa nascendo in tal modo un’etica per la produzione e il consumo. Etica destinata però, negli anni successivi, ad un rovesciamento del valore del consumo e del risparmio. L’etica del risparmio doveva essere sostituita da un’etica del consumo. Ma il processo di trasformazione richiedeva un ulteriore passaggio. Se i migliori non possono più diventare produttori indipendenti, capitalisti, che cosa può essere proposto? Questo è il campo dove si realizzerà l’invenzione del manager. Il manager è un burocrate, in quanto occupa un ufficio ma, è anche un imprenditore che innova, rischia, e risponde totalmente del suo successo o insuccesso. Il processo di riforma è stato poi completato da ulteriori componenti: la riorganizzazione sindacale e l’intervento dello Stato nell’economia come garante dell’occupazione e dell’equa distribuzione del reddito, successivamente dalla mobilitazione nazionale vista come ideale universalistico. L’intervento pubblico nell’economia volto ad assicurare lo sviluppo economico, la solidarietà nazionale, i sindacati forti, l’imprenditorialità manageriale, reddito e riconoscimenti sociali, cioè oneri e doveri di consumo quali pilastri dello sviluppo capitalistico, come sappiamo sono interrotti dal 1945 ad oggi, ma nessuna crisi economica è riuscita a mettere lo sviluppo in difficoltà. Tanto che il suo effetto dimostrativo si è fatto sentire anche nei paesi dell’area marxista.

(Francesco Alberoni – Movimento e istituzione. Come nascono i partiti, le chiese, le nazioni e le civiltà – Sonzogno Venezia 2014).

Autori che studiavano già la società post-industriale: scomparsa dei Verdi

L’equilibrio ecologico. Lo sviluppo

Voglio iniziare dal 1970 dal libro di Strassoldo che ho conservato con cura, per capire il Naturalismo contemporaneo per poterlo confermare al momento opportuno. Noi contro lo sviluppo massiccio, lo sviluppo crudele e per un’economia più moderata, per una nuova politica economica. La preghiera di Strassoldo e di altri  si sta avverando a distanza di circa cinquant’anni.

Sviluppo come valore caratteristico della società moderna

Il concetto di sviluppo

Lo sviluppo viene inteso primariamente come aumento del prodotto nazionale, dell’industrializzazione, dell’urbanizzazione e delle infrastrutture, della popolazione, della sicurezza  interna ed esterna, della stabilità politica, del reddito pro capite, del benessere, dei servizi sociali, della scolarità, delle istituzioni socio-politico-culturali, ecc., inteso a liberarlo dall’enfasi economicistica e a caricarlo di significati più “umanistici” e culturali; inteso  cioè a recuperare tutta la positività originaria delle sue connotazioni, dopo che i fallimenti e le disfunzioni dell’approccio economicistico ne avevano un po’ macchiata la rispettabilità. La differenza è che noi non cerchiamo di recuperare tutto il significato positivo del termine sviluppo, perché la nostra tesi è che lo sviluppo non è un valore finale, ma uno strumento, un mezzo, o al massimo un valore strumentale per realizzare qualcosa di diverso ed opposto: l’equilibrio dell’ecosistema.

Contestazione giovanile dello sviluppo

La ricerca della gioventù della società industriale avanzata non sembra aver dato frutti; in sostanza, non sembra aver creato nulla di più che una “contro-cultura”. Ma malgrado ciò la rivoluzione giovanile è importante per la forza che ha dato alle argomentazioni dei Kulturkritiker, per la popolarità che ha concesso alle idee di filosofi, naturalisti, sociologi, che da tempo andavano predicando del capitalismo dominante, per l’evidenza che ha dato a fenomeni come l’alienazione industriale, il deterioramento urbano, l’inquinamento ambientale, la manipolazione culturale, la responsabilità del sottosviluppo, il conflitto razziale, la degenerazione delle scienze e delle tecnologie al servizio della tecnostruttura; insomma per le reazioni che ha indotto nel sistema. Certo, a breve periodo si tratta anche di reazioni regressive; ma inducendo una certa misura di conflittualità in un sistema quasi monolitico la contestazione ha creato l’atmosfera per ripensamenti, esami di coscienza, rielaborazioni culturali da parte del sistema stesso, permettendogli di arricchirsi, accrescersi, evolversi e progredire. (Lewis Mumford – The Pentagono of  Power – Secker and Warburg – London 1964-1970 / Theodore Roszak – The Making of a Counter-Culture – Faber and Faber – London 1970).

Autori che criticavano lo sviluppo

Critiche dello sviluppo:a- Mishan

Economista inglese che dopo anni dedicati al “Walfare economics” si rende conto che l’economia è la scienza della miseria, e non del benessere. Nel senso che il sistema economico non riesce a produrre un vero miglioramento della qualità della vita, perché mentre è congegnato in modo da aumentare la scelta tra oggetti artificiali toglie ogni possibilità di scelta nelle cose che veramente contano nella vita umana.

Gli studi economici hanno dimostrato una limitazione decisiva  nell’impossibilità di monetizzare realisticamente il costo della devastazione del paesaggio naturale, della contaminazione delle acque, dell’impurità dell’aria, che pure stanno emergendo come il prezzo più pesante che la comunità. Mishan propone la soluzione giuridica, confermando così come il conflitto (la lite davanti al Giudice) abbia la funzione di surrogare la conoscenza. In tal modo l’equilibrio tra gli opposti interessi venga trovato attraverso i normali mezzi di soluzione del conflitto sociale: la forza contrattuale delle parti, la capacità di persuasione ed argomentazione, il buon senso del giudice, l’oscillazione dei valori sociali. Questi sono i classici temi anticapitalisti della critica di sinistra; solo che Mishan e gli altri numerosi critici ( Mumford, Linder, Ozbekhan, Landheer, Russell, Etzioni, Gallino, ecc.) li estendono anche alla sviluppo mania di marca comunista; badano ai comportamenti di fatto e ai risultati ideologici in cui è diviso il mondo industriale. Per una giustificazione del fatto che anche nei Paesi socialisti si verificano inquinamenti e altri costi umani dello sviluppo. (T. I. Ojzerman – Marx Vivo – Mondadori – Milano 1969).

In certi momenti, è indubbio, la critica anti-industriale del Mishan si vena di utopismo e di reazionarismo, soprattutto quando si parla di etica permissiva, di relativismo morale e filosofico e ad altri aspetti caratteristici della civiltà moderna. (Ezra J. Mishan – Growth – The price we pay – Staples Press – London 1969).

b-Linder.

Altro stile è quello di Staffan Linder, conoscitore della realtà americana in cui accademicamente si è formato.

Il moralismo di Linder non è volterriano: tollerante ed ironico. Il suo attacco si fonda in un paradossale smascheramento dei luoghi comuni più ricorrenti tra “sviluppo mani e progressisti”. Vi sono almeno dieci spiegazioni ufficiali dell’opportunità dello sviluppo economico: 1) aiutare le nazioni più povere; 2) aiutare i poveri all’interno; 3) provvedere risorse per la difesa, l’educazione, la sanità; 4) promuovere lo sviluppo culturale; 5) aumentare il tempo libero; 6) vincere le olimpiadi dello sviluppo; dare sfogo all’attivismo e al bisogno di potere degli individui; 8) eliminare i cicli economici; 9) redistribuire la risorse; 10) promuovere i consumi. Un mito attivo nelle menti degli sviluppomani è quello della riduzione progressiva del tempo del lavoro e dell’aumento del tempo libero. Keynes credeva che i bisogni umani avessero un tetto, raggiunto il quale il problema economico sarebbe risolto, l’economia perderebbe il carattere di problema sociale e diventerebbe  un meccanismo automatico privo d’interesse e di potere sulla mente degli uomini. Per gli economisti contemporanei è quasi un’eresia parlare di “tetto” della produzione e del consumo; vi è tutta una serie di teorie che spiegano l’incessante richiesta di redditi più alti. Se l’idea di “tetto” è crollata, un mito ancora attivo è quello della riduzione del tempo di lavoro con l’aumento del tempo libero. Linder dimostra che per molte categorie di lavoratori qualificati, il tempo libera sembra mostrare una netta tendenza alla diminuzione, mentre aumenta la frenesia al lavoro. Tuttavia non sembra non vi sono segni dell’avvento di quella società del tempo libero, sognata già dai primi economisti e filosofi sociali. Per Linder il lavoro non è più compulsory, cioè obbligato, ma compulsive, cioè istintivo. L’analisi di Linder evidenzia come le attività di consumo siano diventate anch’esse socialmente obbligatorie, come siamo costretti dalla pressione culturale a comprare un’infinità di oggetti non perché ne abbiamo bisogno ma perché possederli è un stigma.

I  temi della polemica anticonsumistica sono elaborati con finezze, allargando la visuale dagli oggetti materiali alle altre forme di consumo obbligatorio. Il turismo, la gite di fine settimana, le ferie in località prestigiose sono prove tangibili di quel status symbol. Insomma, contrariamente a quello che pensano i futurologi la società moderna tende ad imporre una mole sempre maggiore di attività frenetica e spossante. In ultima analisi la società moderna accorcia drasticamente la vita dell’individuo: avendo realizzato una specie di paradiso sulla terra, gli ha negato la credibilità di una vita ultraterrena. Eppure questo ridicolo corso della civiltà moderna ha in sé dei meccanismi correttivi; nessun sistema autoalimentatosi può procedere all’infinito. Ciò che smentirà la tesi della creazione indefinita dei consumi è l’incapacità fisiologica dell’uomo di consumare oltre un certo limite. (Staffan Linder – The Harried Leisure Class – Columbia Univ. Press – New York 1970).

c- Mumford. 

Egli vede nella città industriale e tecnologica, con tutte le sue brutture, ingiustizie, congestion la negazione dei bisogni reali e della vita organica dell’uomo; egli ricerca nella storia, nello sviluppo delle tecniche di potere dell’uomo sull’uomo e nell’evoluzione del pensiero scientifico le radici di questa situazione. Il suo è un atteggiamento romantico basato su una vita intensa e prodigiosa di ricerca intellettuale. Il suo pensiero non è però senza contraddizioni; i mali che denuncia, e la folla corsa dell’umanità verso l’asservimento totale dell’ambiente sono i mali contro cui si è mossa, negli ultimi anni, la variopinta e disordinata “crociata ecologica” della gioventù e dell’intellettualità. (Lewis Mumford – The Pentagono of  Power – Secker and Warburg – London 1964-1970).

Verso una morale ecologica

L’atteggiamento anti-naturalistico della civiltà occidentale.

Tanto ci è voluto circa quarant’anni prima che si avverasse quello che molti filosofi preannunciavano e scrivevano. D’altra parte i naturalisti sono sempre esistiti, prima dei Verdi e in parte trasformatisi per l’industrializzazione e ora sono risorti e avranno pieni poteri politici in quanto hanno dalla loro parte la storia e la filosofia.

La civiltà occidentale è stata caratterizzata, per anni, da un atteggiamento aggressivo e dominatore nei confronti della natura. Questa non è una caratteristica universale umana; vi sono diverse culture e religioni che nutrono per la natura sentimenti molto diversi. Probabilmente  la fonte principale dell’atteggiamento occidentale verso la natura sta nel monoteismo ebraico, con la sua peculiare opinione che il mondo sua stato creato a servizio dell’uomo. In questo sistema le risorse che vengono tolte alla terra, mediante la raccolta dei frutti, le vengono reintegrate mediante le tecniche della concimazione e della rotazione. Anche in una società basata sull’agricoltura a ciclo chiuso vi erano però da soddisfare esigenze che richiedevano interventi di rapina da parte dell’uomo, anche  se nei primi secoli del suo sviluppo non devastava il paesaggio come è successo negli ultimi due secoli. Ma tutto sommato le ferite inferte dai sistemi pre-industriali sull’equilibrio ecologico erano limitate. Il grande danno avvenne quando l’idea etica del dominio dell’uomo sulla natura (giudeo-cristiana), trovò nella scienza, nella tecnica e nell’industria uno strumento quasi onnipotente. Una società priva di freni e controlli istituzionali nei confronti della natura si trovò in mano uno strumento di potenza illimitata, la componente sadica dell’atteggiamento tecnologico sulla natura, che è propria della nostra civiltà.

Filoni naturalisti. Anticipazione al 1970 del Movimento Naturalista, ora riproposto. La contemporaneità

L’indifferenza per la distruzione dell’ambiente naturale non è un atteggiamento universale nella civiltà occidentale. C’è sempre stata qualche categoria di individui che vedevano con preoccupazione l’estendersi del dominio dell’uomo sulla natura. Il Naturalismo iniziò alla fine del cinquecento. Il settecento non fu solo il secolo della ragione, del trionfo della scienza, dell’avvio dell’industrializzazione; è anche il secolo della Natura e dell’avvio del pensiero romantico. L’ottocento è il secolo in cui accanto ad una scienza, una tecnologia, un’industria ed un capitalismo tutti tesi allo sfruttamento della natura, prospera una massa di filosofi, poeti, pittori, ecc., tutti intenti a celebrare le bellezze della natura. Il Naturalismo si fa largo con Zola e con Taine. Se nel settecento non era difficile conciliare ragione e Natura, o nell’elaborazione di tesi filosofiche etiche i cui canoni del comportamento umani erano identificati nelle leggi della natura, questa coesistenza era ben difficile nell’ottocento.

L’anima romantica e naturalistica della cultura sette-ottocentesca, con Zola in Francia, si esprimeva, sul piano paesaggistico, con il giardino all’inglese, sul piano filosofico-letterario, con le idee organicistiche e olistiche di Goethe e dei grandi idealisti tedeschi, in cui confluiva la tradizione sia di Leibniz che di Rousseau.

(Jane Jacobs – Vita e morte delle Grandi Città – Einaudi – Torino 1969).

La cultura dominante era comunque impregnata dei valori del lavoro, della produzione e del progresso, di fronte ai quali i valori naturalisti non solo non resistevano ma si attiravano derisioni e beffe.

Era nata l’industrializzazione, erano nati i Verdi ma oggi l’industrializzazione è crollata e certi valori si sono potuti riprendere, non più quindi derisioni e beffe ma si fa avanti la denominazione Naturalisti.

La scoperta dell’inquinamento e la crociata ecologica

Solo quando l’ampiezza delle modificazioni impresse dall’uomo sulla natura fu tale da provocare fenomeni di ritorsione imprevista cominciò a capire che era sua la responsabilità delle catastrofi naturali, solo allora i valori dei romantici, dei conservazionisti e dei naturalisti furono riabilitati. Chiaramente, dietro l’attuale moda dell’ecologia stanno precisi interessi umani e precisi interessi economici.

“ Gli inquinamenti sono una degradazione dell’uomo , non della natura”. (Constance Perin – With Man in Mind, an Interdisciplinary Prospectus for Environmental Design, M.I.T. – 1970).

La crociata ecologica attuale è uno di quei movimenti collettivi in cui si sintetizzano interessi e filoni diversi. Solo in un secondo momento in essi si concretizzano interessi specifici e cominciano a fiorire le interpretazioni ex post.

Un elenco dei fattori che possono spiegare l’attuale moda dell’ecologia, (e siamo alla fine degli anni ottanta e già come detto si parlava di naturalismo ma nacquero i Verdi – in Europa già c’erano,  in Francia già alla fine degli anni ’90 sono crollati, si sono ripresentati con Nicholas Hulot, in Germania hanno avuto un calo e credo che si estingueranno anche lì -e c’era ancora l’industrializzazione) e dell’inquinamento sarebbe lungo: ci si può riferire all’aumento del benessere o all’effettivo aumento del ritmo con cui l’industria consuma risorse naturali o all’aumento dei consumi o al’aumento di efficienza delle istituzioni, che hanno permesso una presa di conoscenza e di coscienza della misura in cui le malattie dipendono da fattori ambientali.

( Maynard M. Hufschmidt – Environmental quality as a policy and planning objective, in Journal of the AIP).

Vista da una certa sinistra, il movimento per l’ecologia è una manovra diversiva del sistema per incanalare l’energia dei giovani rivoluzionari verso un falso scopo e impedire che si riversi contro il vero responsabile di ogni male: il sistema capitalista.

Il movimento per l’ecologia in quel periodo erano in effetti i Verdi ma tecnicamente erano un movimento alla cui base c’erano i naturalisti, perché i naturalisti provengono da un movimento ma di fatto il sistema politico portò questo movimento a formare un partito più di sinistra estrema.

Vista al contrario da una  certa destra per fare accettare il sempre più stringente controllo statale sulla libera iniziativa privata e nazionalizzare l’economia. Ma è proprio la contraddittorietà di queste interpretazioni a indicare che il movimento ecologico è un fenomeno spontaneo che può avere ambedue le conseguenze, ma nessuna vera causa. Ovviamente contestazione ed ecologia sono lungi dal coincidere. Buona parte dei giovani ribelli non s’interessa affatto della natura e buona parte degli appassionati dell’ecologia non vuole avere nulla a che fare con la contestazione giovanile.

(sulle implicazioni politiche, istituzionali e giuridiche del movimento ecologico cfr. “Annals maggio 1970”, Society and its Physical Environment; Samuel Z. Klausner, Thinking Social-scientifically about Environmental Quality. Per le iniziative ecologiche sul piano internazionale, cfr. Le “Relazioni Internazionali” di Landheer e Ozbekhan).

Non c’è dubbio che la crociata ecologica ha visto l’intera comunità accademica marciare e allearsi con gli ambienti federali più avanzati.  Di fatto i naturalisti o il Movimento Naturalista sono molto vicini alle comunità accademiche e universitarie. Così i naturalisti non si devono illudere che la moda dell’ecologia riveli sempre una sincera adesione agli ideali di rispetto della natura, l’amore per la vita organica, ecc., essa è anche manifestazione tattica di una strategia sociale e politica con obiettivi complessi e diversi. E’ ovvio che essendo un movimento completo può sfociare in una strategia sociale e politica con obiettivi complessi e diversi. I naturalisti dunque erano l’origine e, solo successivamente, nacque il partito dei Verdi. Sono sempre esistiti perché esisteva il movimento associazionistico in Italia per la Protezione della Natura nato nel 1940 e inserito poi in ambito CONI.

Le due ecologie

di Alain de Benoist – 10/10/2007.

Nel 1859 il naturalista tedesco Ernst Haeckel ha coniato il termine «ecologia» per designare la scienza delle relazioni tra gli organismi viventi e il loro universo «domestico» (in greco oikos), cioè il loro ambiente naturale. L’espressione «ecologia umana» risale invece al 1910. La nozione di “ecosistema” è stata creata nel 1935 dall’inglese Tansley. Nel 1953, nei loro Fundamentals of Ecology, i fratelli Odum attribuiranno agli ecosistemi il rango di organismi viventi, aprendo prospettive nuove alla scienza. Come preoccupazione politica e sociologica, l’ecologia compare molto più tardi, sebbene se ne trovi espressione fin dal 1926 nelle opere del biologo Vernadsky. Nei paesi anglosassoni uno dei suoi pionieri, George Stapleton, scrisse il libro Human Ecology fra il 1946 e il 1948, ma riscontrò così poco interesse intorno a sé che lasciò il manoscritto nel cassetto, dove rimase fino alla sua morte, avvenuta nel 1960 1. Bisogna infatti attendere gli anni Sessanta perché l’ecologia conosca un primo lancio con i libri di Gunther Schwab in Germania, di Barry Commoner, Barbara Ward, Evelyn G. Hutchinson e Rachel Carson negli Stati Uniti 2. In Francia, il Ministero dell’Ambiente viene creato nel 1971. L’anno successivo, il celebre rapporto del Club di Roma sui “limiti dello sviluppo” (Limits fo growth) e l’esaurimento delle risorse energetiche provocano polemiche memorabili. Negli anni Settanta, con le crisi petrolifere che segnano la fine dell’espansione continua e del pieno impiego, la «protezione dell’ambiente»3 sale davvero all’ordine del giorno, tanto che si assiste nella maggior parte dei paesi occidentali all’emergere dei partiti “verdi”, dei “comitati di cittadini” e dei nuovi movimenti sociali 4.

Una crescita anarchica

L’ampiezza della preoccupazione ecologica è ovviamente proporzionale alla constatazione dei danni inflitti all’ambiente naturale dall’attività tecno-industriale, così come la si è intesa sinora. Per decenni, se non per interi secoli, l’attività economica si è svolta nell’ignoranza delle leggi fisiche fondamentali secondo le quali l’ambiente e l’economia non formano mai delle entità radicalmente distinte. Il libero funzionamento dei mercati permetteva ai decisori di massimizzare i propri interessi senza tener conto delle “esternalità” delle iniziative assunte. Il più delle volte, la logica del profitto spingeva a ricercare la redditività a breve termine, mentre i costi necessari alla riproduzione o alla ricostituzione delle condizioni non mercantili di produzione venivano rinviati “verso l’esterno”, vale a dire in definitiva sul sociale. (È la celebre formula dell’“effetto NIMBY”: «not in my backyard»). Questa propensione al saccheggio o all’esaurimento incondizionato delle risorse naturali era del resto la regola anche nei paesi del “socialismo reale”, come testimonia l’attuale situazione dell’ambiente naturale nei paesi dell’Europa dell’Est, in genere disastrosa. Di fronte a questa situazione, l’atteggiamento generale sia dell’opinione pubblica che dagli ambienti ufficiali si è a poco a poco evoluto a partire dai dubbi su un eventuale esaurimento delle riserve naturali, cosi come sul costo di una crescita illimitata e sull’impatto che un certo numero di provvedimenti pubblici e privati possono avere sul ritmo di questa crescita. Due modi di procedere ben differenti si sono di conseguenza fatti strada: uno di orientamento liberale o riformista, che continua a diffondere una concezione strumentale o utilitarista della natura, esposta per esempio da William F. Baxter e John A. Livingston 5; l’altro, che è quello dell’ecologismo in senso proprio, che si propone di modificare radicalmente, approfittando della crisi attuale, i rapporti tra l’uomo e la natura.

L’ecologia superficiale: gestire l’ambiente

Il primo di questi modi di procedere corrisponde a ciò che l’ecologista norvegese Arne Naess ha chiamato “ecologia superficiale” (shallow ecology), in opposizione all’ “ecologia profonda” (deep ecology) 6. Si riduce a una semplice gestione dell’ambiente, e mira a conciliare preoccupazione ecologica e produttività in termini di redditività, senza rimettere in discussione le basi del sistema di produzione e consumo dominante. Esso si colloca peraltro in una prospettiva antropocentrica; si fonda, in altre parole, sull’idea che la natura deve essere protetta solo in quanto – poiché la Terra costituisce il contesto di vita della specie umana – un deterioramento eccessivo dell’ambiente naturale andrebbe a discapito degli interessi puramente umani. È la posizione brutalmente espressa da Haroun Tazieff: «Per me, la Terra deve servire l’umanità. Se l’umanità scomparisse, la sorte della Terra non avrebbe più alcuna importanza per nessuno» 7. Nel migliore dei casi, questa posizione, senza dubbio oggi la più diffusa, si limita a sottolineare le “responsabilità dell’uomo” nei confronti di una natura prima di tutto concepita come un capitale che non dev’essere sperperato avventatamente 8. Questo atteggiamento riformista, che contrappone frequentemente l’ecologia (come scienza) all’ecologismo (come pratica politica), è portato ovviamente alle estreme conseguenze dagli autori liberali o ultraliberali, spalleggiati da economisti come Tietenberg e Solow. Per i liberali, che si rimettono al libero gioco del mercato, eventualmente corretto da misure fiscali adeguate, gli ecologisti sono semplicemente degli adepti come tanti altri dell’economia dirigista; sono peraltro dei neomalthusiani, sostenitori di un’economia “stazionaria” o addirittura regressiva, fondata sulla solaconsiderazione dei volumi (limitati) a detrimento della nozione di valore (illimitata). Questa critica liberale dell’ecologismo si fonda prima di tutto sull’elogio incondizionato della proprietà privata. L’idea basilare è che soltanto i beni appartenenti a una persona privata (o a un’associazione di privati) possono essere difesi e ben amministrati, perché è nell’interesse del loro proprietario prendersene cura. Viceversa i “beni pubblici”, che non appartengono a nessuno, sarebbero del tutto naturalmente i più deteriorati e i più inquinati, giacché l’inquinamento dipenderebbe dal fatto che le risorse naturali non sono state considerate come beni mercantili appropriabili, ma come se avessero un prezzo nullo o vicino alla zero. Se ne deduce che gli Stati, i quali si disinteressano del lungo termine, sono “i più grandi inquinatori del pianeta” (Gérard Bramoullé) e che l’“ecologia di mercato” deve avere per principio primo la generalizzazione di una proprietà privata ammantata di tutte le virtù. In termini più chiari: si tratta di trasformare la maggior parte possibile di res communes (cose che non appartengono a nessuno e il cui uso è comune a tutti) in res nullius (cose che non appartengono a nessuno, ma di cui ci si può appropriare) e poi in res propriae (beni appropriabili). Converrebbe parallelamente generalizzare il principio « chi inquina paga »: coloro che inquinano devono pagare un certo prezzo per risarcire le vittime dell’inquinamento subito 9. Murray Rothbard scrive pertanto: «Se ad esempio un’impresa è proprietaria di una risorsa naturale, diciamo una foresta, coloro che la dirigono sanno che ogni azione consistente nel tagliare un albero e nel venderlo per un profitto a breve termine sfocerà nel ribasso del valore capitalizzato dell’intera foresta. Un imprenditore privato deve sempre mettere in bilancio il profitto a breve termine e le perdite di capitale. Tutto lo invoglia a guardare lontano davanti a sé, a ripiantare degli alberi per sostituire gli alberi tagliati, ad accrescere la produttività e a preservare le risorse, e così via» 10. Con lo stesso spirito, Gérard Bramoullé spiega la scomparsa delle speci selvagge col fatto che non si sono adeguate; e pone questa domanda: «perché un petroliere dovrebbe prendersi la briga di degassificare uno spazio che non appartiene a nessuno? ». Alain Laurent afferma, dal canto suo: «Il proprietario si prende cura della sua proprietà, la valorizza e la fa fruttare perché è sicuro di conservarla e di trasmetterla ai suoi discendenti e perché, in queste condizioni, è più redditizio per lui utilizzarla in una prospettiva di medio e lungo termine piuttosto che esaurirla o deteriorarla»

Chi ha interesse a proteggere la natura?

La Chiesa, in parte lo Stato ma non le grandi multinazionali.

Queste argomentazioni si confutano da sole. Ciò che Rothbard, Bramoullé o Laurent si limitano infatti a spiegare è che può essere interesse di un proprietario preservare una risorsa naturale che costituisce per lui una fonte di reddito. Ma che cosa succederà se la vendita di questa risorsa, vendita che ne implica il saccheggio o la distruzione, rappresenta un interesse ancora maggiore? Murray Rothbard fa l’esempio di una foresta in affitto. Quale sarà il comportamento del proprietario di questa foresta, se per acquistarla gli viene proposta una somma superiore a quella che può ricavare dal suo sfruttamento, con lo scopo di costruirvi degli immobili in cemento irti di tabelloni pubblicitari o di farne uno scarico di rifiuti affittato al miglior offerente? E evidente che quel proprietario non esiterà un istante, poiché la sua prima motivazione è la ricerca del maggior vantaggio materiale. Ci troviamo, in questo caso, dinanzi all’assiomatica dell’interesse e alla logica del più redditizio. In un contesto del genere, il rispetto della natura può essere tutt’al più una conseguenza indiretta e contingente del desiderio di massimizzare un’utilità individuale; il che non ha ovviamente più niente a che vedere con l’ecologia 12.

Quanto al principio «chi inquina paga» coi suoi corollari di internalizzazione dei costi esterni e di «verità ecologica dei prezzi», le prime applicazioni che ne sono state fatte, specialmente negli Stati Uniti a partire dagli anni Sessanta, non si sono rivelate affatto efficaci. Questo principio si è soprattutto tradotto la creazione di un «mercato dell’inquinamento» che consiste, per le imprese, nell’acquisto di un diritto di inquinare alle condizioni più vantaggiose passibili. Si presume che inquinatori e inquinati debbano accordarsi sull’ammontare di un giusto risarcimento, per i danni causati dagli uni e subiti dagli altri. Negoziazioni di questo genere ovviamente non fanno diminuire l’inquinamento, dal momento che è sempre possibile trovare qualche vittima potenziale resa consenziente dall’importo degli indennizzi promessi: la California Waste Management Board, ufficio californiano incaricato della gestione dei rifiuti, ha recentemente pagato a una società di consulenza di Los Angeles, Cerrel Associates, una somma di un milione di dollari per individuare la popolazione del pianeta che, in cambio di qualche risarcimento finanziario, «si opporrebbe di meno all’utilizzazione indesiderata della terra» (formula politically correct per designare il deposito dei rifiuti tossici).

Un siffatto mercato può inoltre riguardare solamente gli effetti immediati, puntuali, di certi inquinamenti, senza tener conto degli effetti generali, che si rivelano soltanto a lungo termine e di cui neppure gli stessi inquinatori sono in genere consapevoli (l’acqua inquinata dai nitrati, ad esempio, è chiara come tutte le altre), né del costo, non valutabile in termini finanziari, delle funzioni naturali che vengono meno in ambienti inquinati. I «permessi d’inquinare» inoltre, sono totalmente inadatti per quanto concerne i rischi tecnologici più gravi o i danni irreversibili all’ambiente. In fin dei conti, il “mercato dell’inquinamento” ha come principale conseguenza di orientare le industrie inquinanti non a ridurre l’ammontare delle emissioni nocive, ma ad integrare nei costi dei prodotti le somme assegnate agli inquinatori potenziali, ad esempio trasferendo questo aumento sui prezzi. E la ragione per cui il principio «chi inquina paga», benché sia stato adottato nella dichiarazione finale della conferenza di Rio del 1992, tende oggi a cedere il passo all’organizzazione dei sistemi di riciclaggio o di stoccaggio, e soprattutto alle “eco tasse”, cioè ad imposte prelevate direttamente alla fonte delle attività inquinanti.

Altri economisti riformisti come Pearce, Bishop o Turner, coscienti della miopia del mercato di fronte al, la complessità dei problemi della biosfera e dei danni provocati all’ambiente naturale dalla ricerca sistematica del profitto a tutti i costi, propendono piuttosto per un’intensificazione degli interventi pubblici. Il loro approccio s’inquadra pertanto in un’“economia dell’ambiente” alla quale vengono generalmente collegate le nozioni di «ecosviluppo» o di «sviluppo durevole» 14.

Questa economia dell’ambiente si è soprattutto sviluppata sulla base di un’analisi costi-benefici, giacché la maggior parte degli studi disponibili dimostrano che il costo delle misure di protezione della natura è sempre inferiore a quello dei danni subiti qualora non siano adottate. Sorta di compromesso tra l’utopia della «crescita zero» e l’ideale produttivistico classico, essa si fonda sull’idea che l’attività economica debba svolgersi a beneficio delle generazioni presenti senza compromettere però la capacità delle generazioni future di far fronte ai propri bisogni. Si tratta dunque di una rielaborazione riformista della visione umanistica della modernità, che trova espressione nelle risoluzioni delle grandi conferenze internazionali, nonché nei discorsi degli esperti e dei partiti politici classici. L’obiettivo è ridurre l’inquinamento, proteggere la biodiversità, contenere l’esaurimento delle risorse e l’erosione dei suoli, o determinare le scelte energetiche dell’avvenire e trasformare talune forme dell’habitat urbano 15.

Per raggiungere questo scopo, le istituzioni internazionali stabiliscono norme ed emettono divieti, ai quali si aggiungono diverse iniziative degli Stati e dei governi. Certi testi costituzionali menzionano esplicitamente i «doveri verso l’ambiente» (gli Umweltschutzgebot della Costituzione bavarese); taluni paesi, come la Germania, hanno già trovato soluzioni avanzate nel campo dell’ecologismo quotidiano: stampa su carta riciclata, introduzione della marmitta catalitica e della benzina senza piombo, legge federale che permette ai consumatori di lasciare gli imballaggi nei luoghi d’acquisto, raccolta differenziata dell’immondizia e dei rifiuti domestici, e via dicendo.

Ci si può chiedere tuttavia se questi provvedimenti siano davvero all’altezza dei problemi posti. Al di là delle critiche che si possono muovere al concetto stesso di sviluppo», durevole e non, e alla prospettiva «globalista» al cui interno esso si colloca 16, le proposte fatte nell’ambito delle grandi conferenze internazionali sono raramente seguite dai fatti anche a causa delle reticenze della grande industria e di taluni egoismi nazionali. E così gli Stati Uniti, dove il consumo di energia pro capite è due volte superiore a quello dell’Europa, restano ostili a tutti gli accordi internazionali sulle emissioni di ossido di carbonio (CO2), e la Francia fino ad oggi ha sempre respinto l’idea di una ecotassa imposta agli industriali inquinatori dalle istituzioni comunitari.

Un esempio tipico è quello della biodiversità, che è stata una delle parole-chiave del «vertice della Terra» organizzato nel giugno 1992 a Rio de Janeiro 17. Con questo termine si intendono sia la biodiversità degli ecosistemi sia la diversità genetica delle specie animali e vegetali 18. Al termine della conferenza venne firmata da 160 dei 172 paesi rappresentati una convenzione sulla biodiversità. Un’altra riunione si è in seguito tenuta a Trondheim (Norvegia) nel maggio 1993, al fine di determinare le modalità della messa in opera delle deliberazioni assunte. Alla data del 31 dicembre 1993, questa convenzione era stata tuttavia ratificata solo da trenta paesi, tra i quali non figura nessuno degli Stati-membri della CEE. Quanto agli Stati Uniti, si sono

puramente e semplicemente rifiutati di firmare il testo adottato a Rio, con il pretesto che gli interessi della loro industria farmaceutica ne potrebbero risentire negativamente 19. Questo testo solleva d’altronde un certo numero di equivoci, specialmente per quanto riguarda le “compensazioni” che potrebbero essere versate ai paesi del Sud attraverso accordi commerciali bilaterali, e la “brevettabilità del vivente”, nella quale alcuni paesi, come il Brasile, vorrebbero trovare una nuova fonte di finanziamento.

L’ecologia riformista pare dunque un’ecologia che mira a ritardare le scadenze, ma non è in grado di farle scomparire. Michel Serres la paragona «alla figura del vascello che naviga a venticinque nodi verso una barriera rocciosa dove immancabilmente si fracasserà, e sulla cui tolda l’ufficiale di guardia raccomanda al macchinista di ridurre la velocità di un decimo senza cambiare rotta» 20. Parallelamente essa permette l’emergere di un «mercato dell’ambiente», che introduce a preoccupazione ecologica nel settore mercantile («eco-business» o «capitalismo verde») 21. In effetti, essa firma la propria condanna nel momento in cui continua a porsi all’i interno di un sistema di produzione e di consumo che è la causa essenziale dei danni ai quali tenta di porre rimedio. Si traduce allora, «nel quadro dell’Industrialismo e della logica del mercato, in un’estensione del potere tecno-burocratico […} abolisce l’autonomia del politico a favore dell’espertocrazia, erigendo lo Stato e gli esperti di Stato a giudici dei contenuti dell’interesse. generale e dei mezzi per sottomettere ad essi gli individui» 22. Il risultato, per riprendere una formula di Edgar Morin, è che, in risposta ai problemi nati dal dominio della tecnica, «si sviluppano delle tecnologie di controllo che curano gli effetti di questi mali sviluppandone nel contempo le cause» 23. In altre parole, si cura la malattia estendendola.

Alternative al produttivismo

Proprio per uscire da questo circolo vizioso un certo numero di economisti (Brown, Lele), di teorici e di movimenti ecologisti propongono di adottare un approccio alternativo. Invece di limitarsi a valutare il costo finanziario dei rischi, a determinare tassi d’inquinamento sopportabili a moltiplicare le penalità, tasse e regolamentazioni d’altro genere, sarebbe a loro avviso il caso di ripensare interamente il modello attuale di società e il problema del posto dell’uomo nella natura, di farla finita con l’egemonia del produttivismo e della ragione strumentale; insomma, di agire sulle cause piuttosto che sugli effetti, rompendo con la religione della crescita e con il monoteismo del mercato.

Negli Stati Uniti questo ecologismo radicale si ispira alle tesi avanzate già nel 1949 dal celebre naturalista ed esperto di foreste Aldo Leopold 24 e sviluppa, in generale, una critica dell’antropocentrismo che può assumere forme svariate. Nella versione più “moderata” l’uomo è considerato parte integrante di un tutto «cosmico» da cui non si può astrarre senza negare le particolarità della specie umana e la dignità superiore che ad esse è connessa 25. Ma questa critica dell’antropocentrismo può essere anche portata alle estreme conseguenze, al punto di sfociare in una sorta di «biocentrismo» egualitario, che attribuisce alla natura un valore intrinseco (indipendente da qualunque giudizio umano), stabilisce l’equivalenza di valore di tutte le forme di vita (o addirittura di tutte le forme di oggetti) contenute nell’universo e tende a considerarle come veri e propri soggetti di diritto, In ogni caso, questo ecologismo radicale prospetta una nuova etica e un nuovo modo di vedere il mondo. Esso sostiene che la natura merita di essere protetta indipendentemente dall’”utilità” che rappresenta per l’uomo, e generalizza un principio di prudenza fondato su una nuova forma di “dotta ignoranza”: non potendo mai essere interamente previste le conseguenze di lungo termine di una trasformazione dell’ambiente naturale, è meglio astenersi ogni volta che il rischio connesso a una data azione sembra molto elevato 26.

Una delle correnti più radicali che si collocano in quest’ottica è quella dell’Ecologia profonda, apparsa alla fine degli anni Settanta, i cui principali rappresentanti sono il norvegese Arne Naess e gli americani Bill Devall e George Sessions. Movimento di pensiero più filosofico che politico, aperto inoltre a tendenze assai differenti,

l’Ecologia profonda rifiuta nel contempo sia l’individualismo che l’antropocentrismo, ritenuti intrinsecamente portatori di un atteggiamento strumentalizzante e manipolativo nei confronti dell’ambiente, e predica una «saggezza» fondata sulla natura, che mira a restaurare rapporti di simbiosi armonica tra tutti i viventi.

«Crediamo», scrivono Bill Devall e George Sessions «non di aver bisogno di qualcosa di nuovo, bensì di far rivivere qualcosa di molto antico, di far rivivere la nostra comprensione della saggezza della terra» 27..

Ad avviso di Giovanni Filoramo, l’Ecologia profonda può essere definita «un tentativo di ordinare ontologicamente uomo e natura, al fine di creare una maniera nuova di pensare e di agire, una nuova filosofia di vita, un nuovo paradigma ecologico caratterizzato dall’olismo e dal radicalismo: olistico perché rifiuta l’atomizzazione della conoscenza e della realtà e radicale perché vuole andare all’origine delle cose, criticando e decostruendo la macchina tecnomorfa creata dalla scienza moderna restaurando nel contempo nella sua integrità il senso perduto dell’armonia tra uomo e natura» 28. A proposito dei suoi autori, Dominique Bourg afferma: «Essi sono portati a respingere la conseguenza stessa di questa elevazione [dell’uomo al di sopra della natura e dell’individuo al di sopra del gruppo], ovvero la proclamazione dei diritti dell’uomo, Essi se la prendono inoltre con la religione giudeo-cristiana, accusata di essere stata all’origine dell’antropomorfismo, con lo spirito scientifico, analitico e dunque inadatto alla comprensione della natura come totalità, ed infine con le tecniche, accusate di tutti i mali. Niente di ciò che è moderno sembra trovare grazia davanti ai loro occhi» 29.

A titolo personale, Arne Naess ha introdotto il termine «ecosofia» per indicare una filosofia globale della vita, distinta dall’ecologia come disciplina scientifica e centrata sull’idea della realizzazione di sé 30. Rintracciando le proprie radici nell’opera di Spinosa, ritenuto l’avversario per eccellenza del pensiero cartesiano e il promotore di un monismo assoluto, questa «saggezza ecologica» sostiene che la realizzazione di sé (selfrealization)

passa attraverso un processo di autocomprensione fondato su un dialogo con la natura, dialogo che permette all’uomo di scoprire la sua natura e di dare un senso alla sua vita. Essa implica l’abbandono del principio di non-contraddizione a profitto di un nuovo modello cognitivo di tipo “mitopoietico”, grazie al quale l’individuo può trascendere il proprio io e sperimentare l’unione dei contrari (coincidentia oppositorum) identificandosi con la natura, considerata alla stregua di un grande essere vivente. L’«ecosofia» sembra in tal modo resuscitare l’ideale della vita contemplativa, non senza incappare, malauguratamente, in alcune tendenze caratteristiche della confusione della «New Age», e talvolta in un irenismo un po’ ingenuo 31.

Il dibattito tra ecologisti riformisti e radicali è ovviamente ben lontano dal potersi considerare chiuso. Sembra anzi destinato ad acuirsi, come è testimoniato dalla pubblicazione, alla vigilia del vertice di Rio, nell’aprile 1992, dell’appello di Heidelberg, manifesto sottoscritto da più di duecento personalità (fra cui, peraltro, pochissimi veri specialisti dell’ecologia), i quali dichiaravano la loro preoccupazione per “l’emergere di un’ideologia irrazionale che si oppone al progresso scientifico e industriale” e affermavano che “l’umanità è sempre progredita mettendo la natura al suo servizio, e non l’inverso” 32. Utilizzando, perfino nel vocabolario, le argomentazioni più classiche dell’ideologia del progresso, questo Appello ha suscitato vivaci reazioni, a partire da un contromanifesto, l’Appello alla ragione per una solidarietà planetaria, i cui firmatari si schieravano “sia contro i comportamenti di estremismo ideologico che sacrificano l’uomo alla natura, sia contro i comportamenti di imperialismo scientifico che pretendono di salvare l’umanità attraverso la sola scienza” 33.

La posta di questo dibattito è in ogni caso essenziale, perché si tratta di capire se i problemi sollevati dall’ecologia sono in definitiva soltanto una “questione tecnica che la modernità liberal-capitalista può risolvere senza doversi rimettere in discussione o se invece implicano nel medio periodo una diversa scelta di società, vale a dire una trasformazione profonda dell’organizzazione sociale e del modo di vita oggi dominanti.

L’approccio planetario al problema fornisce un primo elemento di risposta, non tanto, come si dice sovente, per semplici ragioni di ordine demografico 34, quanto piuttosto dal punto di vista delle possibilità di generalizzazione del modello di produzione e consumo che è alla base della concezione occidentale dello “sviluppo”. Come ha scritto Jean-Paul Besset, «con la forza congiunta delle baionette, del mercato e della televisione, il modello di civiltà occidentale si è imposto all’universo, sostituendo l’avere all’essere e i prodotti ai valori. Sia nella versione liberale sia nell’approccio marxista, la produzione e il consumo di massa sono diventati il motore principale delle società, nel contempo modalità regolativa economico-sociale e progetto culturale […]. Ogni società umana ha dovuto abbracciare la religione di [questo] modo di vita, che assimila il ben-essere al possesso massimo di un massimo di cose, e inchinarsi davanti al vitello d’oro dell’automobile privata e degli imballaggi di plastica, degli hamburger e dell’elettricità nucleare» 35. Tuttavia attualmente, un quinto solamente. degli abitanti del pianeta consuma da solo l’80% delle risorse esistenti, e il quarto più industrializzato della terra consuma sedici volte di più del resto del mondo metalli non ferrosi, quindici volte di più carta, otto volte di. più acciaio, quattro volte di più concimi. Che cosa succederebbe se questo modello venisse effettivamente generalizzato? La risposta non lascia spazio a dubbi. «La verità è dura da dire, ma è incontrovertibile. L’annullamento del divario fra Nord e Sud sulla base del criteri culturali della felicità fondata sull’accumulazione dei beni e sulle regole di un’economia trainata dal consumo ipertrofico costituirebbe un suicidio planetario».

Le teorie della società “post”. Nuovo avvento di una società

Nel pensiero sociologico contemporaneo sembra poter individuare un inizio di reazione a quell’approccio relativistico che assumeva il mutamento come carattere normale della società.

Quali che siano le motivazioni di fondo sta il fatto che fioriscono le interpretazioni sociologiche in cui si parla di prossimo avvento di una società, variamente chiamata post-industriale, nuovo stato industriale, post-tecnologia, ecc., a indicare che siamo alle soglie di una  mutazione di enorme significato, al di là della quale si intravede una società molto diversa da quella in cui il mondo occidentale è abituato da secoli.

Ecco perché parliamo sempre dopo di cambiare la società, una nuova società più sostenibile, nuovi stili di vita più naturalisti.

Vi sono differenze anche importanti nell’interpretazione di questa mutazione. Per Mumford il “grande rifiuto” giovanile sembra chiudere l’epoca iniziatasi 5000 anni fa con la nascita del “complesso del potere”.

(Alain Touraine – La società post-industriale – Il Mulino – Bologna 1969 / Jhon Kenneth Galbraith – Il nuovo stato industriale – Einaudi – Torino 1968 / Herbert Marcuse – Eros e civiltà – Einaudi – Torino 1967/ Roderich Seidenberg – Post Historic man – New York – 1968).

L’idea centrale è di una semplicità lapalissiana: in un pianeta finiti i diversi processi di sviluppo esponenziale che hanno caratterizzato  gli ultimi secoli non possono procedere all’infinito. Allora o si accettano le teorie cicliche o si accetta la prospettiva dei biologi, evoluzionisti ed ecologi che parlano di uno stato di equilibrio molto prolungato, che viene superato solo con i lentissimi processi di mutazione genetica o con i mutamenti dell’ambiente esterno. In ambedue i casi i tempi che stiamo vivendo sono visti come anni di transazione tra due grossi periodi storici e/o evolutivi; uno caratterizzato dalla conquista dell’uomo del predominio assoluto sul pianeta; l’altro caratterizzato dall’elaborazione dei valori, dei criteri e della filosofia necessari al buon uso di questa potenza. Il primo caratterizzato da un uso matto della propria capacità tecnologica, il secondo dalla presa di coscienza delle proprie capacità, dall’assunzione delle responsabilità di guida, e regolatore dell’intero ecosistema, attraverso la conoscenza scientifica e la pianificazione razionale. Potremmo dire che questa corsa alla presa di coscienza è come diceva H. G. Wels:”una corsa tra l’educazione e la catastofe”.

Ma quali sono le caratteristiche socio-politico-culturali della società post-transizione? I teorici mettono in rilievo che è una società fondata sulle comunicazioni, sull’alto tenore di vita. Altri mettono in rilievo che , essendo una società ad alto livello culturale (è quello che noi da sempre desideriamo e vogliamo, era questo l’anno del 1971 e dopo circa cinquant’anni noi stiamo parlano di una nuova costruzione di una società. Noi precedentemente l’abbiamo sempre detto e auspicato), è una società molto intellettualizzata e fondata sui simboli anzichè sugli oggetti materiali. Altri ancora evidenziano il fatto che l’uomo, superata la necessità di saccheggiare la natura per trarre da essa a forza i suoi mezzi di sussistenza, instaurerà con essa un rapporto filiale e fraterno, di apprezzamento, amore e solidarietà; allo stesso modo, superata con l’automazione la necessità dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, l’umanità sarà composta da individui completi, autentici, eguali e solidali. Infine la liberazione dal lavoro permetterà la libera scelta di attività creative e la devoluzione di gran parte del tempo alla partecipazione alla cosa pubblica, all’auto-governo.

(Landheer – La funzione del futuro e la società ecologica, Futuribili, V, 1971)

Società post e società comunista

I teorici della società “post” , non diversamente dallo storicismo marxiano, che lo sbocco finale non dipende da una libera scelta dell’uomo, ma dalla necessità storica (aggiornata in leggi dell’ecosistema), dall’operare dialettico di una serie di forze impersonali. Ma la questione può essere trattata e affrontata da un punto di vista biologico-genetico-evoluzionista, in questi termini ne trattano Galtung Darwin (nipote del grande Charles) e Lewis Mumford in Man’s Role; Renè Dubos in Man Adapting, Yale University Press, New York 1968. (Marx sosteneva Zola e affermava che prima o poi  l’industrializzazione sarebbe finita e questo di fatto è successo).

Ma gli intellettuali costituiscono una classe in cui gli stili di vita e la struttura di valori non coincide con quella dei produttori, dei centri di potere economico e delle classi industriali. I valori tipici delle classi intellettuali-umanistiche cercano di imporsi all’intera società. i risultati provocarono un deciso aumento di potere contrattuale dell’establishment scientifico e culturale nei confronti della “tecnostruttura” economico-politica in modo da accogliere in qualche misura i bisogni, i valori e le idee del mondo della cultura.

(Franco Alberoni – Classi e Generazioni – il Mulino – Bologna 1970).

I caratteri della società post: equilibrio ecologico, ideologia naturalista

Oggi è necessario esaminare se sia possibile passare dalla teoria scientifica dell’equilibrio ecologico alla fondazione razionale di una morale ecologica. Se l’equilibrio può assurgere da fatto a valore e se possa essere considerato un valore strumentale o finale. Tra i caratteri della società “post” viene attribuita grane importanza al’equilibrio ecologico. Il problema a è: in che misura questo aspetto è una reminiscenza di letture e atteggiamenti romantici, di ideologie naturalistiche nate verso la fine dell’ottocento, e in che misura è un valore autentico? (In Marx questa concezione si esprime con la famosa idea della “naturalizzazione dell’uomo e umanizzazione della natura. Non occorre ricordare che l’equilibrio ecologico è una caratteristica fondamentale della società “postcivile” di Boulding e della società ispirata alla “biotecnica” e all’”organic plenitude” di Mumford). Le ideologie naturaliste erano sicuramente un valore autentico e proprio per questo Marx era vicino a Zola.

Dagli studi e dalle teorie sull’economia si trae la nozione che l’equilibrio ecologico è un valore strumentale: se non pone termine o non controlla lo sfruttamento delle risorse l’umanità va incontro alla catastrofe ecologica se non modificherà i suoi comportamenti. In questa prospettiva sistemica è possibile reinterpretare anche tutto il movimento di studi pianificatori che hanno dato luogo alle teorie della società post. L’equilibrio ecologico è una legge di natura, come la gravità, come la relatività di cui l’uomo deve tener conto nella sua costruzione del suo sistema tecnologico, della sua macchina universale. Anche la teoria della relatività ha avuto le sue conseguenze ideologiche, filosofiche e morali, essendo stata interpretata come un altro sintomo della crisi di ogni verità costituita e di ogni certezza morale. Ma forse bisogna riandare ai grandi scienziati e filosofi antichi per aver un esempio di come le scoperte scientifiche possano mobilitare tutto un ambiente culturale e provocare rivoluzioni non solo scientifiche ma anche filosofiche, morali e politiche.

(Alfred Kuhn – The Study of Society, a Multidisciplinary approach, Tavistock – Londra 1966).

Bisogno di contesto e la risposta dell’ecologia

Sappiamo che i bisogni dell’uomo sono estremamente diversi, ma sembra che uno dei bisogni fondamentali sia quello di “contesto”. E’ un bisogno che sente sia quando pensa che quando agisce. E’ il bisogno di “consonanza cognitiva” che si manifesta nella tendenza di organizzare le proprie esperienze, le proprie idee, immagini del mondo, il bisogno che sta dietro alla costruzione di sistemi filosofici, di ideologie, di fedi. E’ il bisogno che ha lanciato la gente in una affannosa ricerca di surrogati filosofici e morali della Natura, nella ragione, nella  Nazione, nel Popolo, nella Razza, nell’Umanità, nel progresso, nello sviluppo. Le scoperte della scienza hanno dato una conferma abbastanza sicura a quelle credenze e intuizioni circa la sua appartenenza con l’insieme della  vita organica. Le osservazioni dell’etologia sulle analogie tra il comportamento sociale e culturale degli animali e sul comportamento istintivo dell’uomo sono correlate alle teorie dell’ecologia sull’interdipendenza non solo di tutte le forme viventi ma anche di tutti gli elementi dell’ecosistema. Se questo è vero, allora l’ecologia, intesa come summa di tutte le conoscenze umane nel campo delle scienze naturali, è in grado di fornire una visione del mondo capace di soddisfare il bisogno di contesto. L’ecologia si trasforma da scienza a filosofia il cui concetto centrale è l’equilibrio ecologico.

(Alfred Kuhn – The Study of Society, a Multidisciplinary approach, Tavistock – Londra 1966).

Siamo d’accordo i termovalorizzatori e gli inceneritori si possono ridurre con più coscienza e comprensione di tutti. Nel rispettare le regola dei rifiuti sicuramente una risorsa, per un maggior rispetto della vita e un maggior rispetto per le generazioni future. Più concertazione e dialogo nelle decisioni da prendere, più educazione scolastica. La Natura è un bene comune.

La morale ecologica

L’imperativo del rispetto della vita

Trasformato in valore e in principio l’imperativo ecologico impone all’uomo di riconoscere la sua appartenenza al mondo della natura in condizioni di eguaglianza con gli altri organismi. Non c’è nessuna ragione scientifica perché si consideri superiore o diverso; non è che l’ultimo e il più fortunato prodotto dei meccanismi evolutivi.

(Lewis Mumford – The pentagono f Power – op. cit.).

Il comandamento dell’amore per tutte le creature è impossibile da osservare integralmente; è un principio guida, da applicare con giudizio alle situazioni, secondo buon senso e conoscenza. In questo senso, San Francesco, che oggi viene reinterpretato come santo contestatore, giustamente, è venerato anche come santo dell’ecologia.

Noi infatti siamo partiti da Benedetto XVI, che è stato tra i primi a riconoscere il valore del Creato e della Natura, con delle sue encicliche, per arrivare poi a Papa Francesco e confermare, di fatto, questo nuovo processo della Chiesa. Ma anche il primo ricongiungimento storico tra Ravasi e Napolitano è l’esempio per affermare l’avvicinamento tra potere temporale e potere spirituale.

Tuttavia l’obiezione degli anti-naturalisti, secondo cui l’uomo, non ha fatto altro che imitare il comportamento delle altre forme di vita, ognuna delle quali ha sempre cercato di asservire le altre e imporsi su di esse secondo le leggi darwiniste e della lotta per l’esistenza. E’ anche da aggiungere che la visione dell’ambiente naturale come di una giungla in cui ogni organismo lotta per la sopravvivenza è una visione distorta e ideologica del più corretto pensiero darwiniano: in natura non si uccide più del necessario per vivere. I darwinisti sociali attribuivano alla natura le brutali caratteristiche della società capitalista-individualista competitiva. (Cfr. Lewis Mumford – the Pentagono f Power – op.cit.).

 Gli apolegeti dell’espansione umana sostengono una tesi che riduce l’uomo a rango di animale, il cui unico scopo è la propagazione della specie. Certo tutte le specie tendono alla massima espansione, ma nessuna specie ha saputo sviluppare le tecniche, la cultura e la scienza capace di farle capire l’insensatezza di questo istinto espansivo. L’uomo è assurto alla coscienza di sé, del proprio comportamento, del proprio ruolo e questo lo pone in una posizione diversa dagli altri animali e gli impone altre responsabilità.

Responsabilità che in primis riguardano l’impegno a che non l’uomo non sia la causa della fine del mondo. Tanti sono i modelli di mondo a cui la compagine culturale a ideato ma per ognuno è difficile identificarne il migliore.

Un modello di comunità fondato sui valori ecologici e autolimitatisi può sembrare reazionario, passista e romantico; e del tutto inadatto a comunità che stanno faticosamente uscendo da una situazione di arretratezza rurale. Ma è necessario stabilire che il modello di comunità deve essere fondato su un modello di uomo e una teoria dei bisogni umani di base, teorie  modelli che sono ancora da costruire.

Questi modelli noi li stiamo già costruendo basti vedere il manifesto politico del Movimento Naturalista, a distanza di circa quarant’anni dal libro di Strassoldo del 1970 dell’istituto di Scienze Ecologiche di Trieste, si sono verificati e noi li abbiamo ripresi.

La fondamentale preoccupazione della comunità deve essere quella di predisporre un ambiente tale che ognuno possa passarvi una vita serena e attendere tranquillamente il compiersi del ciclo naturale della natura e della vita. Parlare oggi di morale ecologica, di società post, di equilibrio ecologico, di ideologia naturalista, di nuovo avvento di una società, di crociata ecologica, di filoni naturalistici è la nostra Storia.

(Raimondo Strassoldo – Sviluppo regionale e difesa nazionale – Edizioni Lint –  Trieste – 1972).

EQUILIBRIO ECOLÓGICO Generalmente los ecosistemas están en equilibrio, es decir, los organismos que los.

Dopo quanto diceva Strassoldo viene confermato che l’ecologismo e’ morto. Ma non solo anche in Svizzera con la proposta del referendum e’ crollo l’indice di gradimento dei verdi. L’ecologismo o meglio il naturalismo puo’ essere anche abbinato alla teconologia. Essa e’ importante come e’ importante la protezione dei cittadini e l’eventuale riduzIone delle tecnologie piu’ avanzate.