Naturalismo Ellenico

Naturalisti ionici

Con naturalisti ionici (detti anche fisici, fisiologi o ilozoisti) si intendono i filosofi della scuola di Mileto, che si dedicarono alla ricerca di un principio fisico come origine e sostanza delle cose. Gli esponenti di questa scuola sono tre: Talete, Anassimandro e Anassimene.

La ricerca del principio

L’osservazione della natura porta i primi filosofi a confrontarsi con il problema della realtà primaria. Di fronte alla realtà del mondo che empiricamente si presenta come una molteplicità di cose che nascono e muoiono, i naturalisti sono convinti che esiste una realtà unica ed eterna che si oppone al divenire (il nascere e il corrompersi delle cose) e le dà ragione. Questa sostanza (da substantia, cioè «che sta sotto le cose»), denominata inizialmente physis (cioè realtà prima, originaria e fondamentale) e poi archè (cioè principio), è la fonte o scaturigine delle cose, loro termine ultimo e loro permanente sostegno.

La parola greca physis deriva dalla stessa radice del verbo phyein, che significa «generare». Per i primi filosofi la natura è la totalità di ciò che esiste, e comprende quindi non solo le cose che si trovano sulla terra ma anche quelle in cielo. Inoltre, per gli antichi la natura non è contrapposta all’uomo, bensì lo comprende, insieme a ciò che egli produce. Le cose che compongono la natura non sono isolate, ma sono rette da un ordine e governate da leggi. Il termine physis quindi fu in un primo momento usato per indicare anche il principio che determina lo sviluppo di una cosa.

Archè deriva invece dal verbo archein, che significa «essere il primo» ma anche «governare». Il termine indica quindi ciò che è primo per importanza e che ordina e governa il tutto. I primi filosofi cercarono di identificarlo con uno o più elementi della natura che potevano essere ritenuti il fondamento delle cose e spiegare razionalmente il cambiamento.

Il naturalismo aristotelico

Nel se­guen­te bra­no, trat­to dal­la Fi­si­ca (I, 184 a 10 – 191 b 14; II, 192 b 8-33), ven­go­no chia­ra­men­te espres­si i due aspet­ti fon­da­men­ta­li del “na­tu­ra­li­smo” ari­sto­te­li­co, va­le a di­re: a) l’a­spet­to me­to­do­lo­gi­co, per cui nel­la ri­cer­ca dei prin­ci­pi bi­so­gna par­ti­re da ciò che per noi è più evi­den­te e im­me­dia­to; b) l’a­spet­to con­te­nu­ti­sti­co, che ri­guar­da in­ve­ce la ge­ne­ra­zio­ne e la tra­sfor­ma­zio­ne del­le co­se e de­gli es­se­ri vi­ven­ti che si tro­va­no nel­la na­tu­ra. Co­me Pla­to­ne nel Me­no­ne, Ari­sto­te­le qui ri­pren­de e cri­ti­ca l’ar­go­men­to eri­sti­co, se­con­do il qua­le nul­la può ge­ne­rar­si dal­l’es­se­re (per­ché già è), né dal non-es­se­re (per­ché non è). Lo sco­po di Ari­sto­te­le è in­fat­ti quel­lo di af­fer­ma­re una con­ce­zio­ne del­la na­tu­ra ca­rat­te­riz­za­ta dal di­ve­ni­re e, a tal pro­po­si­to, si spie­ga­no an­che i pa­ra­gra­fi con­clu­si­vi, vol­ti a di­stin­gue­re gli es­se­ri vi­ven­ti che han­no in sé il prin­ci­pio del mo­vi­men­to, dal­le co­se ar­ti­fi­cia­li o non vi­ven­ti, il cui di­ve­ni­re non ha in­ve­ce cau­se in­ter­ne.

«Poiché in ogni campo di ricerca di cui esistono princìpi o cause o elementi, il sapere e la scienza derivano dalla conoscenza di questi ultimi – noi, infatti, pensiamo di conoscere ciascuna cosa solo quando ne abbiamo ben compreso le prime cause e i primi princìpi e, infine, gli elementi –, è evidente che anche nella scienza della natura si deve cercare di determinare anzitutto ciò che riguarda i princìpi

È naturale che si proceda da quello che è più conoscibile e chiaro per noi verso quello che è più chiaro e conoscibile per natura: perché non sono la medesima cosa il conoscibile per noi e il conoscibile in senso assoluto. Perciò è necessario procedere in questo modo: da ciò che è meno chiaro per natura ma più chiaro per noi a ciò che è più chiaro e conoscibile per natura.

A noi risultano dapprima chiare ed evidenti le cose nel loro insieme; e solo in un secondo momento l’analisi ci consente di individuarne gli elementi e i princìpi. Perciò bisogna procedere dall’universale al particolare: infatti alla sensazione si presenta come più immediatamente conoscibile l’intero, e l’universale è, in un certo senso, l’intero, perché esso contiene molte cose come parti. Ciò appunto avviene, per così dire, anche per i nomi rispetto alla loro definizione: essi indicano, infatti, qualcosa nel suo insieme e in maniera indeterminata, come il nome “cerchio”: la definizione di esso, poi, lo determina nelle singole particolarità. Anche i bambini, del resto, in una prima fase chiamano padri tutti gli uomini e mamme tutte le donne, e solo in una seconda fase distinguono ciascuna di tali cose in particolare. […]

Veniamo, dunque, a parlare, allo stesso modo e in primo luogo, della generazione in generale: ché è conforme a natura parlar prima delle cose comuni, per poter, poi, contemplare quelle che sono proprie del particolare. Noi diciamo, invero, che una cosa si genera dall’altra e il diverso dal diverso, riferendoci sia alle cose semplici sia a quelle composte. Mi spiego con questo esempio: accade che un uomo diventi musico o, meglio, che l’uomo non-musico diventi uomo musico. Ora io dico semplice ciò che diviene, l’uomo, cioè, e il non-musico, e semplice anche il divenuto, cioè il musico; composto, invece, l’insieme di ciò che diviene e di ciò che è divenuto, come quando noi diciamo che l’uomo non-musico diventa uomo musico; e di una di queste due cose si dice non solo: “questo diviene”, ma anche: “questo diviene da questo”, ad esempio il musico dal non-musico. Ma ciò non si dice di ogni cosa in modo indiscriminato: infatti, non dall’uomo è venuto fuori il musico, ma l’uomo è divenuto musico. Fra le cose, poi, che divengono secondo il nostro comune modo di esprimerci sulla generazione delle cose semplici, alcune divengono permanendo, altre non permanendo: l’uomo, infatti, divenuto musico, permane ed è uomo; ma il non-musico e l’a-musico non permangono in sé né come semplice né come composto. […]

Solo in questo modo si possono superare anche le aporie degli antichi. Infatti, quelli che primamente filosofarono, indagando sulla verità e sulla natura degli enti, furono tratti, per così dire, verso una via sbagliata, spinti dalla loro inesperienza. Essi affermano che nessuno degli enti si genera o perisce, per il fatto che necessariamente ciò che diviene, si genera secondo loro dall’ente o dal non-ente, mentre è impossibile che si generi da ambe le cose. Infatti, secondo loro, l’essere non può divenire (ché esso è di già), e dal non-essere nulla si potrebbe generare, perché è necessario che qualcosa faccia da sostrato. E così, accentuandone le immediate conseguenze, affermano che il molteplice non esiste, ma che esiste sempre lo stesso ente.

Essi seguirono questa opinione per i motivi da noi illustrati; noi, invece, affermiamo che la generazione da ciò-che-è o da ciò-che-non-è, ovvero il fatto che ciò-che-è o ciò-che-non-è agiscano o patiscano, o comunque una qualsivoglia generazione particolare, non differiscono affatto dall’agire o dal patire del medico o dal fatto che alcunché sia o si produca per opera del medico; e quindi, poiché ciò si dice in duplice senso, è chiaro che quello che proviene dall’ente e l’ente stesso agiscono o patiscono. Il medico, pertanto, costruisce pure una casa, ma non in quanto medico, bensì in quanto costruttore, e diventa pure bianco, ma non in quanto medico, bensì in quanto nero; invece, in quanto medico, egli medica o è incapace di medicare. E poiché noi diciamo, in modo molto appropriato, che il medico fa o patisce qualcosa, o che da medico diventa una tal cosa, qualora egli, in quanto medico, patisca o agisca ovvero diventi tali cose, è ovvio che l’espressione “essere generato dal non-ente” debba significare “essere generato in quanto non-ente”. Ma gli antichi filosofi non seppero fare questa distinzione e caddero in errore, e per questa loro ignoranza avanzarono tanto nell’ignoranza stessa da credere che nessun’altra cosa si generi o sia, e da eliminare tutto il divenire. […]

Degli enti, alcuni sono per natura, altri per altre cause. Sono per natura gli animali e le loro parti e le piante e i corpi semplici, come terra, fuoco, aria e acqua (queste e le altre cose di tal genere noi diciamo che sono per natura), tutte cose che appaiono diverse da quelle che non esistono per natura. Infatti, tutte queste cose mostrano di avere in se stesse il principio del movimento e della quiete, alcune rispetto al luogo, altre rispetto all’accrescimento e alla diminuzione, altre rispetto all’alterazione.

Invece il letto o il mantello o altra cosa di tal genere, in quanto hanno ciascuno un nome appropriato e una determinazione particolare dovuta all’arte, non hanno alcuna innata tendenza al cangiamento, ma l’hanno solo in quanto, per accidente, tali cose sono o di pietra o di legno o una mescolanza di ciò; e l’hanno solo in quanto la natura è un principio e una causa del movimento e della quiete in tutto ciò che esiste di per sé e non per accidente (dico “non per accidente”, perché un tale, ad esempio, pur essendo medico, potrebbe essere causa di salute a se stesso; tuttavia non in quanto egli è sanato, possiede l’arte medica, bensì è capitato accidentalmente che siano lo stesso il medico e il sanato: e perciò queste due cose si possono anche separare tra loro). Similmente avviene per ciascuno degli altri oggetti prodotti artificialmente: nessuno di essi, infatti, ha in se stesso il principio della produzione, ma alcuni lo hanno in altre cose e dall’esterno, come la casa e ogni altro prodotto manuale; altri in se stessi, ma non per propria essenza, bensì in quanto accidentalmente potrebbero diventar causa a se stessi».

AristoteleFisica, in Opere, vol. 3, trad. it. di A. Russo, Laterza, Roma-Bari, 1983, pp. 3-27.